RAFFAELLA MANIERI: "ORGOGLIOSA DI CIÒ CHE HO FATTO DOPO MILLE DIFFICOLTÀ"
- Daniele Pompignoli
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Chissà quante di quelle ragazze che ogni settimana scendono in campo con gli scarpini ai piedi sognano di percorrere la strada di Raffaella Manieri. Di giocare dove una donna che corre dietro ad un pallone non è vista come un'extraterrestre, bensì come un'atleta professionista in grado di regalare emozioni come qualsiasi altro. Dove sei una donna capace di scrivere storie di sport e di fare esultare di gioia e piangere di sconforto le migliaia di tifosi che ogni giorno riempiono gli stadi. Tifosi che ti fermano per strada chiedendoti un selfie o l'autografo. Di festeggiare lo scudetto assieme ai colleghi maschi di una delle squadre più forti del mondo, osannata da migliaia e migliaia di sostenitori impazziti, scesi in piazza per loro e per te. Raffaella Manieri il suo sogno ha iniziato a costruirlo alla soglia dei ventotto anni, quando in tanti potrebbero pensare che ciò che è arrivato era quello destinato a te e, anche se vorresti di più, ormai per chi vive sul rettangolo verde non c'è molto altro spazio per provare a scrivere un nuovo capitolo della carriera.
Raffaella, invece, proprio al termine di una stagione difficile, ha rimesso tutto in discussione. "La mia visibilità è arrivata grazie all'Europeo giocato in Svezia (2013, nda), durante il quale abbiamo affrontato anche la Germania e grazie ad un amico di nome Ben sono approdata al Bayern Monaco".
Di fronte a Raffaella c'era una scelta difficile, sia perché non conosceva né tedesco né inglese, sia perché alla soglia dei ventotto anni significava forse mettere in discussione ancor prima che una carriera, una serie intera di certezze. Ma è proprio in momenti come questi che determinazione e carattere fanno la differenza. "Tutto ciò significava mettermi in discussione per l'ennesima volta - racconta -, ma io mi sentivo pronta per affrontare questo percorso".
L'avventura in Germania così come la conosciamo oggi, però, non è che la punta di un iceberg fatto di sudore, lavoro e lacrime. "Appena sono arrivata ho dovuto fare i conti con un ritmo e un'atleticità totalmente superiori rispetto a quelli alle quali ero abituata. Poi ero in una città nuova, senza amici e riferimenti. Per i primi sei mesi ho avuto a disposizione una camera piccolissima con giusto il letto per dormire".
In quella cameretta Raffaella si ritrova fin da subito a fare i conti con il dubbio che caratterizza la sua avventura tedesca, con gli allenamenti durissimi e la preparazione delle sue compagne. "Non ero pronta. Mi ci sono voluti sei mesi per prendere il loro passo e imparare a fare i contrasti. Cabrini - racconta - dice sempre "morte tua vita mia": può sembrare crudele, ma è semplice competizione calcistica e quando tutte le giocatrici sono allo stesso livello devi imparare a difenderti e ad attaccare, sapendo che la cura del particolare farà la differenza. All'inizio mi chiedevo se avessi le qualità per giocare con le migliori calciatrici, se anche io fossi a quel livello. Da una parte c'eravamo io e il dilettantismo e dall'altra io e il professionismo. Oggi so che la risposta a quella domanda è sì. Ci posso stare e posso dire di essere orgogliosa di quello che ho fatto. Solo chi ha vissuto vicino a me può capire le difficoltà e gli ostacoli che ho superato. Sono caduta, ho pianto, ma credendo in me stessa e nella mia forza mi sono sempre rialzata".
È così che col passare dei mesi sul volto di Raffaella le lacrime spariscono ed arriva un sorriso enorme. Di pari passo diventano più grandi anche la sua stanza e l'importanza nella rosa del tecnico Thomas Wörle. "Il sorriso è la mia ragione di vivere", racconta Raffaella. In passato, però, la sua carriera ha anche vissuto momenti bui, nei quali quel bel sorriso sembrava non riuscire più a illuminarla. "Ci sono stati momenti in cui il sorriso l'ho perso, come in occasione dei tre grossi infortuni e delle altrettante operazioni. Dal punto di vista sportivo ricordo la mia prima esperienza fuori casa a Torino quando persi il posto in squadra. Ricordo l'avventura nel Bardolino con Longega, quando non venni confermata con la scusante di essere stata poco trasparente".
Forse, però, il momento più duro per Raffaella è quello vissuto in Sardegna. "Nell'ultimo anno alla Torres con allenatrice Manuela Tesse, sono stata messa in discussione, anche in modo offensivo, sentendomi dire continuamente che ero peggiorata da quando giocavo a Bardolino, che non ero nessuno e che facevo costantemente errori mettendo in difficoltà la squadra e che mi comportavo in modo non adeguato. Fu un fiume di negatività conclusosi con la non riconferma, giustificata dal fatto che non le sarei servita. È stato l'anno più duro della mia carriera, pieno di infortuni e di questa violenza psicologica che rischiò di farmi saltare l'Europeo, ma nonostante tutto sono riuscita a giocare e a vincere lo scudetto. Con grande fierezza dico di aver superato alla grande quel periodo, creandomi anche l'opportunità chiamata Bayern Monaco.
Alla fine quindi posso solo ringraziare Manuela Tesse per non avermi riconfermato dopo aver vinto quattro scudetti consecutivi, cinque supercoppe e una Coppa Italia con in panchina Tore Arca, che considero uno tra i migliori allenatore in Italia. È anche grazie a lui se oggi sono quella che sono. Tra i momenti difficili poi ci aggiungerei anche i sette anni di panchina con la nazionale di Pietro Ghedin".
Una serie di momenti bui nei quali il carattere e il carisma di Raffaella, pur enormi, da soli nulla avrebbero potuto se non fossero stati associati a quella scintilla unica che solo una famiglia è in grado di far scoccare. "I miei genitori sono stati il mio primo appoggio. Mi hanno insegnato ad affrontare ogni tipo di situazione guardando la soluzione e mai il problema. Grazie a tutto questo ho continuato a credere in me stessa, non ho mollato mai cercando di capire i miei errori ed imparare da questi, attorniandomi solo di quelle persone che credevano in me e che in questo mio percorso mi hanno permesso di fare la differenza. Di questi mi piace ricordare Salvatore Arca, che mi ha rimesso in pista a ventuno anni dopo che ero stata ferma per tre. Marco Angius che mi ha insegnato a conoscere il mio corpo e a trovare la soluzione per ogni tipo di infortunio, Iryna Chernova che è una giocatrice professionista di pallamano e mi ha insegnato ad essere atleta e donna e Sergione Casu che mi ha insegnato il valore dell'amicizia". Tutti elementi che assieme al più importante in assoluto hanno cresciuto la Raffaella di oggi. "I miei due leader sono stati i miei genitori. Loro mi hanno insegnato la cosa più importante: l'amore".
È proprio mamma Maria Francescani a custodire il primo incontro di Raffaella con un pallone da calcio. "È stata lei a dirmi che avevo due anni quando ho toccato il mio primo pallone e credo proprio sia stato amore a prima vista". Da quel momento la vita di Raffaella e il calcio diventano una cosa sola. "Fino ai dodici anni non ho avuto nessun problema. Giocavo con i bambini e ci sentivamo uguali al punto che non c'erano problemi a fare la doccia insieme. Il merito è stato tutto dei miei genitori e degli allenatori che hanno abolito qualsiasi tipo di differenziazione". I primi problemi, però, arrivano poco dopo. "Tra i dodici e i tredici anni mi hanno detto che non potevo più giocare con i miei amici e ho iniziato a vivere le prime discriminazioni. Non avevo nemmeno una squadra dove andare perché ero l'unica ragazzina a giocare a calcio nella mia zona".
In casa però Raffaella ha due persone che forse sono ancor più testarde di lei e questo alla fine le permette di continuare a giocare, anche se il mare comincia leggermente a incresparsi. "Grazie ai sacrifici dei miei genitori sono andata a Senigallia a giocare, iniziando il mio vero percorso da calciatrice. Facevano tutto loro: mi portavano al campo d'allenamento e mi venivano a prendere verso mezzanotte, il tutto fino a quattro volte a settimana. Poi, quando a quattordici anni mi convocarono per la prima volta in nazionale decisi di credere in me stessa e di fare la calciatrice. Credo di essere stata una bambina fortunata - prosegue -, perché ho avuto il massimo sostegno nel praticare la mia passione, in un contesto dove il calcio femminile veniva visto come qualcosa di extraterrestre".
Santa Maria dell'Arzilla è un piccolo paesino nascosto tra le colline ad una manciata di chilometri da Pesaro. È qui che Raffaella muove i primi passi da giovane calciatrice. Una scelta inaspettata, dato che nessuno in casa ha mai praticato a livello agonistico questo sport. "Grazie a babbo e mamma è stata possibile da subito una integrazione, anche perché il campo era proprio di fronte a casa. L'unica differenza rispetto ad allora è che oggi non è più in erba naturale, ma sintetica". Quegli anni formano la Raffaella che oggi è un perno inamovibile nella difesa della nazionale di Antonio Cabrini. "Senza tutti gli allenatori che ho avuto nelle giovanili non sarei mai riuscita ad arrivare a tanto.
Sono loro ad avermi insegnato in modo impeccabile la tecnica di base e le fondamenta del calcio che oggi mi ritrovo. Questo periodo con tutti i suoi momenti belli e brutti ha contribuito a fare di me ciò che sono ora, e rifarei tutto. Se guardo indietro posso dire che fino al dettaglio meno importante non c'è nulla che poteva essere diverso. Ciò che è successo - prosegue - è l'unica cosa che poteva accadere e doveva succedere perché potessi apprendere la lezione per andare avanti nella vita. Ogni singola situazione della nostra vita - spiega - è assolutamente perfetta, anche quando sfida la nostra comprensione e il nostro ego".
Secondo questo principio, quindi, anche l'esperienza rivelatasi prima vincente e poi difficile vissuta a Sassari con la Torres è qualcosa di importante nella carriera di Raffaella Manieri. La chiusura della società più titolata d'Italia però non l'ha colta di sorpresa. "Mi è dispiaciuto molto, ma per chi viveva il quotidiano la situazione era percepita. Ogni anno anziché migliorarsi, aumentavano i problemi, specialmente sotto l'aspetto economico. Per come l'ho vissuta io credo sia stato un problema di organizzazione e di gestione dovuto ad uno staff non appropriato per raggiungere il top. Ho rafforzato questo pensiero vivendo questa nuova esperienza in Germania".
L'esperienza in uno dei campionati femminili più importanti d'Europa ha anche portato Raffaella a convincersi su cosa non abbia funzionato negli ultimi anni in quello italiano. "Il problema è stato da una parte non aver investito e dall'altra aver abbandonato le società. In Italia c'era una regola non scritta che ha frenato un intero movimento, e diceva che la donna non poteva giocare a calcio".
Una mentalità che probabilmente ancora oggi tiene al palo il movimento, anche se qualche passo verso il futuro sembra essere stato fatto, e mentre da una parte Raffaella culla il sogno di qualificarsi con la nazionale di Cabrini all'Europeo 2017 in Olanda, dall'altra non risparmia nemmeno un consiglio per tutte quelle ragazze che in lei vedono un esempio da seguire. "Dovete avere coraggio nel seguire la vostra passione e il vostro istinto. Ascoltate il cuore e lottate con le unghie e con i denti per i vostri sogni. Non dimenticatevi nemmeno di divertirvi e di sorridere perché così facendo sarete contagiose. A volte potranno arrivare dei fattori esterni a destabilizzarvi, ma dovete sempre credere in voi stesse, perché tutto ciò di cui abbiamo bisogno è dentro di noi. Seguite sempre le vostre emozioni - conclude Raffaella - perché vi porteranno nella strada più giusta, e sarà quella la vostra strada".
Daniele Pompignoli
Twitter: @dpompignoli
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